Stefano Sorrentino: «Gli occhi della tigre non ti devono mai abbandonare»
di Redazione | 7 Dicembre 2025Portiere per istinto, carattere e destino, Stefano Sorrentino è stato uno dei volti più riconoscibili della Serie A degli anni Duemila. Figlio d’arte, il padre Roberto difendeva i pali tra gli anni ’70 e ’80, soprattutto a Catania e Cagliari, ha costruito una carriera lunghissima: 363 presenze in A, oltre vent’anni di professionismo e più di seicento partite complessive tra Italia, Grecia e Spagna. Dal Torino al Palermo, passando per i tanti anni al Chievo Verona, Sorrentino è diventato un simbolo di affidabilità e carisma. Ospite di Palla Lunga e Raccontare su Radio Adige TV, con Raffaele Tomelleri e Serena Mizzon, Sorrentino ha ripercorso l’inizio inatteso tra i pali, il rapporto con il padre, le stagioni a Verona e le scelte che hanno guidato una carriera fuori dal comune.
Diventare portiere, proprio come suo padre, era davvero il suo sogno? È per questo che ha scelto quel ruolo?
Come tanti bambini sognavo semplicemente di diventare un calciatore, come mio papà. Ma non è stato lui a spingermi verso la porta, anzi. Diceva sempre che suo padre lo aveva lasciato libero di scegliere e voleva fare lo stesso con me. Il nonno andava pochissimo allo stadio a vederlo e raramente gli dava consigli. Papà ha giocato negli anni ’80, in Serie A, soprattutto nel Catania: baffoni, capelli lunghi… uno che riconoscevi subito anche nelle figurine.
Allora, cosa l’ha spinta davvero a diventare portiere?
È successo tutto per caso. Un giorno, a Bologna, papà allora giocava in rossoblù, partecipiamo a un torneo dei giovanissimi. Io ai tempi facevo l’attaccante: lo dico sinceramente, mi piaceva farli i gol, non prenderli, come tocca a un portiere. Quel giorno però mancava il portiere. Rino Rado, il mio allenatore di allora ed ex portiere anche lui, mi prende da parte e mi dice: “Stefano, se non ti metti tu in porta, qui non si gioca”. Accettai a malincuore, senza immaginare che da quella porta non sarei più uscito.
Ha avuto una delle carriere più longeve di sempre, con oltre 360 presenze in 17 stagioni. Cosa l’ha spinta a giocare così a lungo?
Mi divertivo a giocare a calcio. Perché avrei dovuto smettere? Anche l’ambiente conta molto. Ai tempi del Chievo, per esempio, mi sentivo davvero dentro una grande famiglia. Avevo un presidente che ogni squadra vorrebbe: Campedelli era sempre presente, magari in silenzio, ma c’era. Soffriva con noi ogni partita, lottava insieme alla squadra. Gli devo molto, anche il fatto di avermi voluto di nuovo al Chievo dopo che me n’ero andato, e non senza qualche strappo.
Cosa era successo quella volta?
Si era rotto qualcosa, forse avevo semplicemente bisogno di andare e fare altre esperienze. Per un periodo i rapporti si interruppero, ma sapevo che prima o poi ci saremmo ritrovati. È bastato vedersi, parlarsi, spiegargli che dentro ero sempre lo stesso Sorrentino. E così il presidente mi ha cercato fino a riportarmi al Chievo, dentro una favola che lui è riuscito a trasformare in realtà. Quelle a Verona sono state le mie ultime stagioni, ma nonostante tutto cercavo sempre di avere gli “occhi della tigre”. Quelli, se sei un vero portiere, non ti devono mai abbandonare.


In Evidenza
Borgo Roma, il vescovo Pompili ha fatto visita ai pazienti e benedetto il presepe

Enrico Albertosi: «Io e Zoff? Non ci siamo parlati per anni»

La Siòra Veronese a Natale

Carlo Dusini: «Il fisioterapista guida, ma il percorso lo fa il paziente»

Il vescovo Pompili inaugura il “presepe-barca” all’Istituto Gresner

Befana Lupatotina 2026, torna la raccolta solidale di giochi e beni

Una letterina a Babbo Natale da parte delle mamme

Due nuovi murales per i piccoli pazienti dell’ospedale di Borgo Trento

Federica Pellegrini in dolce attesa: in arrivo la seconda figlia


