Enrico Albertosi: «Io e Zoff? Non ci siamo parlati per anni»

di Redazione | 23 Dicembre 2025

Enrico Albertosi, per tutti “Ricky”, è stato uno dei portieri simbolo del calcio italiano. Nato a Pontremoli, in Toscana, nel 1939, ha vissuto una carriera lunghissima, oltre venticinque anni ad altissimo livello, da protagonista con Fiorentina, Cagliari e Milan. Nel suo palmarès figurano due Scudetti, un Europeo vinto con la Nazionale e più di 500 presenze in Serie A. Portiere istintivo, anticonformista e spesso controcorrente, Albertosi ha attraversato epoche, stili e generazioni diverse, lasciando un segno profondo dentro e fuori dal campo. Ospite di Palla Lunga e Raccontare su Radio Adige TV, ha ripercorso i momenti chiave della sua carriera: dallo storico scudetto del Cagliari con Gigi Riva e Manlio Scopigno, al rapporto complesso con Dino Zoff, fino alla sua visione del calcio moderno e del ruolo del portiere.

Cosa pensi oggi quando riguardi indietro alla tua carriera?

Posso dire di aver avuto una carriera soddisfacente. Sono stato fortunato a giocare in squadre importanti come il Milan e il Cagliari. Sono orgoglioso dei traguardi raggiunti.

Com’è stato giocare con Gigi Riva durante gli anni d’oro del Cagliari?

Gigi Riva era il leader indiscusso, il “re” di Cagliari. Ogni privilegio che aveva era meritato, perché quando entrava in campo segnava sempre. Lui è stato il motore che ha portato la squadra alla vittoria dello scudetto. Anche fuori dal campo, la sua personalità era unica. Mi ricordo che durante i ritiri, spesso, la sera faceva tardi, andava con gli amici al bar a chiacchierare e fumare. Ma la domenica mattina faceva sempre gol. Era davvero il “Re”, e gli si permetteva di fare un po’ quello che voleva, perché sapevamo tutti che, alla fine, lui faceva la differenza in campo.

Che tipo di allenatore era Manlio Scopigno, l’uomo che vi ha guidato alla vittoria dello scudetto con il Cagliari?

 Scopigno era un allenatore profondamente anticonformista. Non esistevano i ritiri tradizionali e ci lasciava grande libertà, ma sempre all’interno di un rapporto di fiducia totale. Sapeva che conoscevamo il nostro lavoro e non sentiva il bisogno di imporre regole rigide. La preparazione era molto più “libera” rispetto a quella di altri allenatori. Non comunicava mai la formazione prima della partita: arrivavamo allo stadio e trovavamo la maglia appesa nello spogliatoio. Quell’incertezza generava un’atmosfera particolare e responsabilizzante. Scopigno non seguiva le convenzioni, ne aveva create di sue, e alla fine in qualche modo funzionavano.

Ha avuto anche una lunga rivalità con Dino Zoff. Cosa successe tra voi due?

La rivalità con Zoff è nata quando non fui incluso nel Mondiale del 1978, nonostante avessi fatto un’ottima stagione con il Milan. In realtà mi chiamarono per dirmi che sarei stato il terzo portiere, e inizialmente accettai: sarebbe stato il mio quinto Mondiale, un record per un portiere europeo. Alla fine però mi lasciarono a casa perché Zoff, primo portiere e capitano, non “si sentiva tranquillo” con la mia convocazione. Mi sentii tradito e, dopo aver subito due gol facili in Olanda, lo criticai pubblicamente. Non ci parlammo per anni, ma una volta finita la carriera, ci incontrammo e ci abbracciammo: lì la rivalità si concluse definitivamente.

Molti ricordano le tue maglie colorate: verde con il Cagliari, gialla con il Milan. Perché sceglievi colori così accesi?

Me ne accorsi durante gli allenamenti: quando uscivo incontro a un avversario indossando una maglia dai colori molto accesi, lui mi percepiva più vicino di quanto fossi in realtà e finiva per calciare più in fretta. Capii che poteva essere una tecnica utile per mettere pressione agli attaccanti e iniziai a usarla anche in partita. Oggi è diventata una pratica comune tra i portieri.

Come vede il calcio di oggi, e in particolare il ruolo del portiere, rispetto a quando giocava lei?

Il calcio è cambiato molto, soprattutto dal punto di vista tecnico. Oggi i palloni sono più leggeri e veloci, il ritmo è più alto e al portiere viene chiesto di partecipare di più al gioco con i piedi. Ai miei tempi il compito principale era parare, oggi invece si è quasi un giocatore aggiunto. Detto questo, credo che l’essenza del ruolo non sia cambiata: un grande portiere deve restare concentrato su ciò che è parabile, evitare errori gravi e, nei momenti decisivi, fare quelle parate che fanno la differenza. Anche io mi divertivo a uscire sui piedi negli allenamenti, faceva parte del gioco, ma alla fine il portiere resta decisivo soprattutto tra i pali.