Matteo Flora: «La pornografia non consensuale è violenza. Serve uno stigma sociale forte»
di Claudio Capitini | 15 Ottobre 2025Quando parliamo di “siti della vergogna” ci riferiamo a gruppi, portali e canali che diffondono immagini o video privati senza consenso, spesso anche di minorenni. Un fenomeno tanto diffuso quanto sottovalutato, che chiama in causa non solo le leggi e le piattaforme digitali, ma anche la responsabilità culturale e sociale di ciascuno. Matteo Flora, docente di comunicazione digitale e presidente dell’associazione “Permesso Negato” – realtà che offre assistenza gratuita alle vittime di diffusione non consensuale di materiale intimo e altre forme di violenza online – è stato ospite dell’ultima puntata di “Verona Salute”, condotta da Claudio Capitini, per approfondire le dimensioni e le conseguenze di questo fenomeno.
Perché questo tema esplode a ondate, come se fosse sempre una novità?
Perché se ne parla davvero solo quando compaiono immagini di persone famose: politiche, giornaliste, presentatrici. Eppure sono quasi dieci anni che vittime e associazioni segnalano questi siti: il problema è endemico e prima di tutto culturale. Non riguarda solo chi carica i contenuti, ma anche chi li cerca, si iscrive ai gruppi, partecipa.
La diffusione non consensuale di immagini è reato. Che cosa prevede la legge?
Condividere foto o video privati senza il consenso della persona ritratta è un reato. In passato veniva punito come “interferenza illecita nella vita privata”, ma con la legge n. 69 del 2019, conosciuta come Codice Rosso, la norma è stata resa più specifica: oggi la diffusione non consensuale di materiale intimo è prevista e punita in modo diretto, con pene detentive più severe, che aumentano se l’obiettivo è arrecare danno alla vittima. Il problema non è tanto la mancanza di leggi, quanto la scarsa applicazione di quelle già esistenti: online i responsabili vengono individuati di rado, e molti casi restano impuniti.
Come ci si difende quando le immagini sono già online?
La denuncia è fondamentale, ma non è l’unica via. Il Garante della Privacy dispone di poteri d’urgenza e può ordinare alle piattaforme di rimuovere i contenuti entro 24 ore, grazie a una sezione dedicata ai casi di pornografia non consensuale e revenge porn. Esistono poi strumenti di prevenzione: per i minori c’è Take It Down, piattaforma che genera un codice digitale anonimo delle immagini e ne impedisce la pubblicazione su siti e social come Facebook o Instagram. Per gli adulti, invece, lo strumento equivalente è StopNCII, che crea una “firma digitale” dei contenuti e ne blocca automaticamente l’upload sulle principali piattaforme online. Accanto a questi interventi ci sono le associazioni come Permesso Negato, che offrono supporto tecnico, orientamento legale e sostegno psicologico alle vittime, aiutandole a reagire in modo concreto.
Molte vittime non denunciano. Perché?
Parliamo di “crimini della vergogna”: è comprensibile che manchino la forza o la lucidità per esporsi. Le procedure richiedono l’identificazione e questo frena molte persone. Quando si riesce, denunciare è importante: aiuta a far emergere la reale dimensione del fenomeno. Ma se non si trova il coraggio, nessun giudizio. Esistono comunque percorsi anonimi, come quelli offerti dall’associazione Permesso Negato, che permettono di agire concretamente per limitare i danni.
I social collaborano?
Di solito sono il primo a criticare i social quando agiscono con lentezza o ostilità, ma in tema di pornografia non consensuale devo dire che la collaborazione c’è ed è forte. Le grandi piattaforme non vogliono contenuti che danneggiano inserzionisti e utenti, e rispondono in modo abbastanza rapido alle segnalazioni. La “bestia nera” resta però Telegram, storicamente refrattaria alle richieste delle autorità. Le nuove norme europee più stringenti potrebbero cambiare qualcosa, ma resta un terreno difficile. Fuori dai colossi, poi, c’è una galassia di siti dove serve l’azione coordinata delle forze dell’ordine.
È solo un problema di leggi o soprattutto di cultura?
Soprattutto di cultura. Oggi, se al campo da calcetto qualcuno dicesse «ho picchiato la mia compagna», verrebbe isolato o portato in questura; ma chi dice «ho foto hot, le giro» spesso riceve approvazione. Manca uno stigma sociale verso chi diffonde o rilancia immagini intime senza consenso. Eppure è violenza, anche se non fisica: le conseguenze psicologiche possono essere gravi, fino a veri disturbi post-traumatici.
Chi sono le vittime e chi i ricattatori?
Non esiste un’unica età o profilo. L’età media delle vittime di pornografia non consensuale è attorno ai 27 anni. La sextortion invece colpisce spesso uomini over 50. Per questo la formazione non può essere solo scolastica: deve raggiungere tutte le generazioni, con il supporto dei media.
Nei vostri studi emerge un dato inquietante: i carnefici non si sentono colpevoli.
Sì, oltre la metà rifarebbe ciò che ha fatto. Non percepiscono il danno, non provano empatia verso la vittima, o addirittura credono che, se un’immagine è online, allora la persona l’abbia voluta lì. È un errore profondo, ma diffuso. Se la rete sociale non isola questi comportamenti, anzi li normalizza o li esalta, il problema diventa ancora più radicato.
Che cosa fa, concretamente, Permesso Negato?
Offriamo una triade di aiuti: tecnico, legale e psicologico. Sul piano tecnico accompagniamo le vittime passo passo, spiegando come intervenire, quali piattaforme contattare e quali pulsanti premere per chiedere la rimozione dei contenuti. Sul piano legale, con avvocati volontari, chiarifichiamo che cosa è reato e come procedere. La parte psicologica è altrettanto cruciale: uno studio australiano indica che oltre il 50% delle vittime pensa al suicidio come prima reazione. Offriamo quindi un “primo soccorso psicologico” per far capire che non si è soli e che esiste una via d’uscita, e questo può letteralmente salvare una vita. Siamo, purtroppo, la più grande associazione di questo tipo in Europa. Dico “purtroppo” perché vorremmo che non ce ne fosse bisogno. Finché serve, però, continueremo a fare la nostra parte.
Una legge nuova servirebbe?
La tentazione del “soluzionismo normativo” è forte, ma oggi non servono nuove leggi: servono più risorse investigative e l’applicazione effettiva di quelle che già esistono. Il vero cambiamento deve essere culturale: finché continueremo a distinguere tra violenze di serie A e di serie B, come se quelle che passano dalle immagini fossero meno gravi, non capiremo che i danni psicologici e sociali per le vittime possono essere altrettanto devastanti.


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