Giuseppe Galderisi: «A Verona ho trovato l’America»

di Redazione | 16 Dicembre 2025

Giuseppe Galderisi, per tutti “Nanu”, è stato uno dei volti simbolo del Verona dello scudetto. Attaccante rapido, istintivo, spesso decisivo, arrivò in gialloblù da giovane promessa e si ritrovò protagonista di una delle imprese più incredibili del calcio italiano. Nato a Salerno nel 1961, Galderisi ha costruito la propria carriera attraversando alcune delle piazze più importanti del calcio italiano, vestendo le maglie di Juventus, Verona, Milan, Lazio e Padova. Ospite di Raffaele Tomelleri e Serena Mizzon a Palla Lunga e Raccontare, su Radio Adige TV, Galderisi ripercorre alcuni momenti della sua esperienza a Verona, dalla prima stagione e dall’impatto con un gruppo capace di accoglierlo subito, fino al rapporto con Osvaldo 

Quando sei arrivato a Verona, che ambiente hai trovato?

Quando sono arrivato io, il Verona era già da da tre o quattro anni che stava tenendo un buon livello. Me li ricordo perché li guardavo: erano arrivati in finale di Coppa Italia contro la Juventus, era andata male, ma sono cose che capitano. Quello era il secondo anno di Serie A, con Iorio in attacco. Io sono arrivato e ho trovato subito gli uomini giusti, prima ancora dei giocatori. E questa, col senno di poi, è stata la cosa più importante.

All’inizio, però, non dovevi partire titolare. Come andò davvero?

Quella è stata bellissima. Il primo giorno di ritiro a Cavalese eravamo in pochi, seduti nello spogliatoio. Bagnoli, l’allenatore, prende la lavagna e scrive la formazione. Dice: “Per me la formazione è questa” e comincia: Garella, Ferroni, Fontolan, Marangon, Guidetti. Poi arriva alle punte e scrive Iorio e Jordan. Io non c’ero. Finito l’allenamento, ho chiamato Boniperti, presidente della Juventus, dicendogli: “Guardi che io qui non gioco”. In quel momento pensavo di tornare alla Juve o di andare all’Avellino: volevo giocare, volevo andare via. Per fortuna, lo dico davvero, Boniperti mi ha detto di no: “Tu stai a Verona”. Sono rimasto e lì ho trovato un gruppo meraviglioso e Joe Jordan, che per me è stato come un fratello, anche se gli avevo “rubato” il posto e ho giocato quasi sempre io.

Che tipo di gruppo era quello del Verona?

Io quando sono arrivato avevo vent’anni, ero un ragazzino e non sapevo neanche da che parte girarmi. Ho trovato un gruppo veramente speciale, con dei valori fortissimi. Io dico sempre che ho trovato l’America. Era un ambiente fatto di poche chiacchiere e poche storie. Se in campo non “mettevi il piede” ti correvano dietro, se ti comportavi male nello spogliatoio ti facevano capire subito che non andava bene, anche in modo duro. Però poi, quando c’era da difenderti, erano tutti lì. A me questo ha insegnato molto.

Cosa significava, concretamente, “difendere il compagno”?

Significava che non eri mai solo. Mi ricordo una partita a Roma: Falcao mi dà una stecca tremenda e Fanna parte subito, entra duro e prende rosso. Dopo gli dico: “Ma hai preso rosso?”. E lui mi risponde: “Eh sì, però ti ho difeso”. Era questo il senso. Quando succedeva qualcosa a uno di noi, sapevi che gli altri c’erano.

Era un calcio molto più duro anche fuori dal campo?

Sì, era un mondo un po’ naïf, ma anche pericoloso. Io sono di Salerno e ad Avellino era sempre particolare: ti presentavi nello spogliatoio, salutavi e ti facevano vedere la pistola. Poi veniva raccontato come qualcosa di goliardico, ma per noi non lo era. A Messina, per esempio, ti tiravano gli ombrelli mentre battevi le rimesse laterali. Se non avessi avuto intorno quella banda di compagni, come facevo a salvarmi?

Quanto è stato importante Osvaldo Bagnoli in tutto questo?

È stato fondamentale. Bagnoli dava una forza enorme, soprattutto a livello mentale, e quello che poi veniva fuori in campo partiva tutto dallo spogliatoio. Oggi, da allenatore, cerco spesso di tornare con la memoria a quel periodo, perché quello che lui trasmetteva al gruppo era chiarissimo: parlava sempre di quelli che non giocavano. Era più vicino a chi stava fuori che a chi andava in campo. Le cose te le diceva sempre. A volte anche da lontano, ma non le nascondeva mai. Ed era proprio questo che teneva insieme il gruppo.

C’è un episodio in particolare in cui Bagnoli ti ha trasmesso qualcosa?

Sì. In una delle ultime stagioni al Verona, in una partita, ho fatto una stupidata. Volevo fare gol, volevo andare sotto la curva, ero nervoso. Era dieci contro dieci e sono entrato lo stesso. A un certo punto c’è un rigore a nostro favore. Vado dal portiere e gli dico che voglio andare a esultare. Lui mi risponde: “Va bene, tira da quella parte allora”. Era un po’ una sfida la mia, e lui l’ha raccolta. Tiro troppo piano, lui si tuffa e la para. Nello spogliatoio Bagnoli non mi urla contro. Mi si avvicina e mi dice solo: «Mi hai mancato di rispetto». Io mi sono vergognato di quello che ho fatto. È stata una lezione.

Oggi, quando vi sentite, che legame c’è tra voi ex giocatori?

È un legame ancora molto forte. Quello che si è creato allora andava oltre il campo: non era solo un rapporto tra compagni di squadra, ma una vera amicizia che ancora oggi si mantiene.