Giuseppe Imperadore: «Il disagio psichiatrico cresce, soprattutto tra i giovani»

di Claudio Capitini | 17 Dicembre 2025

Il disagio psichiatrico è un fenomeno in costante crescita che attraversa l’intera società, ma che colpisce con particolare intensità giovani e giovanissimi. Un malessere che spesso non fa rumore, che fatica a essere intercettato nelle fasi iniziali e che si traduce, sempre più frequentemente, in un aumento delle richieste di cura e dei ricoveri. Accanto all’emergere dei bisogni clinici, resta aperta una criticità strutturale: la difficoltà di garantire una presa in carico continuativa e adeguata dopo la fase acuta, anche a causa della carenza di servizi e di personale specializzato. Ospite di Verona Salute, il professor Giuseppe Imperadore, direttore del Dipartimento di Salute Mentale dell’Ulss 9 Scaligera, psichiatra e docente all’Università di Verona, fa il punto sull’evoluzione del disagio psichiatrico nel territorio. Il professore analizza l’abbassamento dell’età dei pazienti, le difficoltà di intercettazione precoce, l’organizzazione dei servizi tra ospedale e territorio e le nuove fragilità che emergono nei contesti scolastici, familiari, carcerari e sociali. Un quadro complesso che richiama la necessità di risposte integrate, non solo sanitarie, ma capaci di coinvolgere l’intera comunità.

Si parla di emergenza psichiatrica in Veneto e in Italia. I vostri dati territoriali confermano questo scenario?

I dati e i numeri servono a dare una definizione quantitativa e qualitativa dell’emergere del disagio e del disturbo psichiatrico e di ciò che le istituzioni fanno per fronteggiare questa situazione. Abbiamo registrato un aumento soprattutto nella fase giovanile, come dimostrano i dati degli ambulatori di neuropsichiatria infantile. Questo incremento indica il carico che grava sulle istituzioni per i pazienti che vengono intercettati, ma c’è anche un numero sicuramente elevato di ragazzi e giovani che non riusciamo a intercettare. Per questo il dato è riduttivo. Le prestazioni aumentano, ma parliamo sempre di casi che sono stati inquadrati: uno dei problemi principali resta riuscire a intercettare il disagio il prima possibile.

Come avviene la presa in carico di una patologia psichiatrica conclamata e quali sono i punti critici?

La presa in carico di una patologia psichiatrica richiede un’organizzazione integrata e multiprofessionale, perché il disagio non riguarda solo la dimensione clinica. Molto spesso viene intercettato già a livello scolastico o nei contesti territoriali, ed è per questo che è fondamentale che le strutture sociosanitarie lavorino insieme, mettendo in rete servizi, scuole e realtà locali. Le problematiche possono svilupparsi in modo molto eterogeneo dal punto di vista clinico e proprio questa complessità rende difficile essere sufficientemente rapidi, imponendo un lavoro coordinato tra ambito sanitario e sociale.

Cosa si fa per evitare il ricovero e cosa accade dopo l’ospedale, considerando anche la carenza di posti letto?

In Veneto si è sempre cercato di costruire una continuità tra ospedale e territorio, senza separare le due dimensioni. In tutti i territori sono presenti i Centri di Salute Mentale, presidi ambulatoriali a cui si può accedere con impegnativa del medico di base, ma anche direttamente. In questi casi viene effettuato un vero e proprio triage, simile a quello del pronto soccorso, per individuare gli interventi più appropriati. Gli stessi centri hanno poi il compito di dare seguito alla presa in carico dopo la dimissione ospedaliera, garantendo così la continuità tra ospedale e territorio.

Lei si occupa anche di carcere. Perché è così difficile gestire il disagio psichiatrico in quel contesto?

Il sovraffollamento, con numeri superiori alla capienza delle strutture, genera promiscuità e rende il lavoro del personale penitenziario e sanitario particolarmente complesso. Il carcere è una fotografia del contesto sociale: oggi entrano anche detenuti molto giovani, di 18 o 19 anni. È cambiato anche il tema delle sostanze, che non riguarda più solo le dipendenze “classiche”, ma anche l’abuso di farmaci, spesso presente già prima dell’ingresso in carcere. Per questo molte energie vengono dedicate non solo ai detenuti con un disturbo psichiatrico riconosciuto, ma anche a giovani senza una diagnosi formale che presentano condizioni di dipendenza.

È vero che si registrano ricoveri di bambini di 10 o 11 anni per disturbi psichiatrici?

L’abbassamento dell’età dei ragazzi che iniziano a manifestare problemi comportamentali o forme di disagio psicologico e psichiatrico è un dato reale. Nei reparti di neuropsichiatria infantile si osserva chiaramente una riduzione dell’età degli accoglimenti. In alcuni casi la psichiatria adulta è chiamata a supporto, perché alcune situazioni risultano difficili da gestire esclusivamente in ambito infantile. Pur trattandosi di episodi rari, si sono verificati ricoveri di bambini con caratteristiche molto diverse rispetto a dieci anni fa, quando l’adolescente ricoverato era generalmente più vicino alla maggiore età.

Il disagio mentale colpisce soprattutto i ragazzi. Perché oggi stanno così male?

Oggi il disagio giovanile trova molteplici modalità di espressione, rendendo più difficile intercettare chi è in difficoltà. Un esempio è il cutting: nel momento in cui si infliggono dolore, alcuni ragazzi riferiscono di provare una sensazione positiva, come un temporaneo sollievo da ansia e angoscia. Questo comportamento, però, può trasformarsi in una forma di dipendenza. Accade qualcosa di simile con i disturbi del comportamento alimentare, che coinvolgono ragazze e ragazzi sempre più giovani, e con l’uso di sostanze come automedicazione, pratica ormai comune che rischia di diventare continuativa.

Quali segnali dovrebbero allertare famiglie e insegnanti?

I due contesti principali in cui cogliere i primi segnali di disagio sono famiglia e scuola. La scuola, in particolare, è il primo luogo di confronto con la vita relazionale e con la prestazione. È quindi importante fornire a genitori e insegnanti strumenti per riconoscere le difficoltà e favorire l’accesso ai servizi. In prevenzione è spesso meglio “andare in eccesso”, valutando più situazioni piuttosto che intervenire solo sui casi più gravi. Esistono infatti forme di disagio senza disturbi del comportamento evidenti, come il ritiro sociale, segnali meno visibili ma altrettanto importanti. Per questo è fondamentale una collaborazione continua tra scuola, famiglie e strutture sociosanitarie.

E per i disturbi del neurosviluppo, come ADHD o spettro autistico?

Quando sono clinicamente evidenti, questi disturbi sono più facili da intercettare perché basati su elementi oggettivi. Esistono però forme sotto soglia che non permettono una diagnosi immediata e possono emergere solo più tardi, anche in età adulta. In alcuni casi non incidono in modo significativo sulla qualità di vita, ma in altri, se non riconosciute, possono favorire comportamenti compensatori come l’uso di sostanze o l’autolesionismo. L’esempio di Michael Phelps, famoso nuotatore che ha raccontato di convivere con un ADHD, mostra come le evoluzioni possano essere molto diverse da persona a persona.

Che ruolo hanno i social media in questo scenario?

I social sono una grande opportunità, ma la loro gestione è particolarmente difficile in età giovane. La visibilità può trasformarsi in un effetto boomerang: ciò che un tempo restava confinato a pochi oggi viene esposto e giudicato da moltissime persone sconosciute. Questo livello di esposizione genera uno stress elevato e può portare al ritiro dalla vita reale, con la costruzione di un’identità prevalentemente online. È un fenomeno attuale che coinvolge anche gli adulti, spesso non del tutto consapevoli di queste dinamiche e quindi poco efficaci nel dare l’esempio.

Qual è invece la situazione degli anziani?

Negli ultimi anni il disagio degli anziani è tornato a essere un tema centrale, sia dal punto di vista sociale sia sanitario. La maggiore mobilità per motivi di lavoro ha reso le famiglie meno unite rispetto al passato. Allo stesso tempo, l’aumento della vita media, dato positivo, comporta anche una maggiore incidenza di decadimento cognitivo e demenze. Per le famiglie la difficoltà maggiore non riguarda solo i deficit di memoria, ma soprattutto la disinibizione comportamentale, che rende la gestione quotidiana molto complessa e spesso porta al ricorso a strutture istituzionali.

Il benessere psichico dipende anche dal clima della società in cui viviamo?

Sì, senza dubbio. Il disagio psicologico è legato ai cambiamenti generazionali e sociali: ogni epoca ha avuto le proprie forme di sofferenza. Oggi l’incertezza, il disagio sociale e le difficoltà nel vivere insieme favoriscono l’emergere del malessere. Interventi solo sanitari rischiano di essere insufficienti: è necessario che la società nel suo insieme si faccia carico dei più giovani e degli anziani. Anche il mondo del lavoro è profondamente cambiato e la forte pressione alla produzione incide sui rapporti interpersonali. Stare bene al lavoro non significa solo essere competenti, ma anche riuscire a stare bene con gli altri, una dimensione oggi sempre più fragile.

C’è spazio per una visione di fiducia sul futuro?

Cambiando i tempi, cambiano anche le modalità con cui si manifesta la sofferenza. Rimango moderatamente ottimista: è possibile individuare interventi efficaci, ma occorre essere rapidi, perché i fenomeni evolvono velocemente. Viviamo una fase complessa, con un’esposizione a stimoli molto più intensa rispetto al passato, che può essere una risorsa ma anche un fattore di rischio se non gestita. Diventa quindi fondamentale osservare come cambiano i bisogni e attivare strategie che non siano solo sanitarie, ma coinvolgano scuole, territori e istituzioni, i luoghi in cui i ragazzi trascorrono gran parte del loro tempo.