Alfredo Guglielmi: «Il medico oggi non vive serenamente, e questo allontana i giovani dalla professione»

di Claudio Capitini | 29 Ottobre 2025

La sanità italiana sta vivendo una fase di profonda trasformazione e fragilità: la carenza di medici e infermieri, le liste d’attesa sempre più lunghe e la fuga dei professionisti all’estero rappresentano solo la punta dell’iceberg di un sistema che necessita di essere riorganizzato per garantire efficienza, equità e tutela tanto dei pazienti quanto di chi li cura. Ospite della trasmissione Verona Salute su Radio Adige TV, il professor Alfredo Guglielmi, presidente dell’Ordine dei Medici Chirurghi e Odontoiatri di Verona, già preside della Scuola di Medicina e Chirurgia dell’Università di Verona e chirurgo di fama internazionale, ha analizzato lo stato del sistema sanitario, riflettendo sulle sue criticità ma anche sulle prospettive di rinnovamento, tra nuove tecnologie, formazione e recupero dell’empatia nel rapporto medico-paziente.

Oggi la sanità si trova ad affrontare sfide complesse: mancanza di personale, liste d’attesa infinite, medicina territoriale in difficoltà. Quale di questi problemi le sembra il più urgente? 

È difficile indicarne una sola, perché tutti i problemi sono strettamente collegati tra loro. L’origine di questo affanno va cercata nei primi anni Duemila, quando furono tagliate le assunzioni e bloccato il turnover di medici e infermieri. A questo si è aggiunta la riduzione dei posti letto, passati da sette a tre ogni 100.000 abitanti. Nel frattempo la popolazione è invecchiata: un segno che la sanità ha funzionato, ma che comporta un aumento delle malattie croniche e delle esigenze di cura. Tutti questi fattori messi insieme hanno creato uno stress profondo nel sistema sanitario, dove medici e infermieri lavorano sotto pressione, con carichi di lavoro eccessivi e retribuzioni inferiori alle medie europee. Il vero nodo, però, è che il medico oggi non vive una qualità di lavoro serena, e questo allontana i giovani dalla scelta di intraprendere la professione.

Le liste d’attesa restano uno dei nodi irrisolti del sistema sanitario. Qualcuno sostiene che la responsabilità sia anche dei cittadini, che richiedono troppe prestazioni superflue. È davvero così?

Mi permetta di non essere d’accordo. Non è il cittadino a richiedere le prestazioni. È vero che esiste un eccesso di esami, ma questo deriva in gran parte da una mancata comunicazione tra i professionisti. Nel nostro sistema sanitario non c’è dialogo tra medicina territoriale, ospedali e specialisti, e ciò porta a prenotazioni o accertamenti ripetuti, spesso non necessari. A questo si aggiunge la medicina difensiva, che spinge molti medici a prescrivere esami per non correre rischi di omissione. Le liste d’attesa crescono anche per questo. Dare la colpa ai malati è semplicistico: il vero problema è la mancanza di sinergia tra colleghi e, più in generale, tra medico e paziente

Negli ultimi mesi si è discusso molto del cosiddetto “scudo penale” per i medici, previsto da un disegno di legge che limita la responsabilità penale alla sola colpa grave. Qual è il suo giudizio su questo provvedimento?

È una misura molto importante e rappresenta, a mio avviso, un passo avanti per la sanità e per il Paese. Ricordo che un sistema penale che penalizza i medici esiste solo in tre Stati: Messico, Polonia e Italia. Il disegno di legge, approvato dal Consiglio dei ministri e valido fino a dicembre 2026, dovrà ora passare alle Camere, e mi auguro che venga confermato. In sintesi, stabilisce che solo la colpa grave sia perseguibile penalmente, mentre per la colpa lieve resta il risarcimento civile in favore del paziente. È quindi un giusto compromesso: da un lato tutela il diritto del malato a essere risarcito in caso di errore, dall’altro protegge il medico da lunghi procedimenti penali per colpe non gravi. Basti pensare che meno del 3-4% delle denunce per malpractice si conclude con una condanna effettiva, mentre la medicina difensiva costa all’Italia circa 10 miliardi di euro l’anno. Ridurre il contenzioso e restituire serenità ai professionisti significa anche rendere più sostenibile l’intero sistema sanitario.

Negli ultimi anni molti medici scelgono di lasciare l’Italia. Da cosa dipende questa fuga di professionisti?

Il primo motivo è il clima organizzativo: ambienti di lavoro spesso stressanti, turni lunghi, pressione costante e risorse limitate. A questo si aggiunge l’aspetto economico, con retribuzioni inferiori alla media europea. Un terzo elemento è la mancanza di percorsi di carriera chiari e programmati. All’estero, infatti, non si lavora meno, ma gli stipendi sono più adeguati e le possibilità di crescita più rapide e definite. In Italia, invece, il sistema resta ingessato e poco attrattivo, spingendo molti professionisti a cercare altrove condizioni migliori e maggiore riconoscimento.

Un altro tema grave è quello delle aggressioni negli ospedali. Cosa sta accadendo?

È un problema gravissimo e purtroppo in crescita, che genera timore tra medici e infermieri. Solo all’ospedale di Borgo Trento a Verona, nei primi otto mesi dell’anno, si è registrato un episodio di violenza alla settimana. Gli episodi si concentrano soprattutto nei pronto soccorso e nelle guardie mediche, spesso collocate in luoghi isolati, ma non mancano casi negli ambulatori. Le colleghe donne sono le più esposte, non solo alla violenza fisica, ma anche a quella verbale o di atteggiamento. Le cause sono diverse: c’è la violenza legata a pazienti psichiatrici o sotto effetto di alcol e droghe, difficile da prevenire, e quella di chi, costretto ad attendere ore, reagisce con aggressività per la mancanza di informazioni e comunicazione

Quali soluzioni sono state messe in campo per affrontare la situazione?

Si sta lavorando sul miglioramento del clima organizzativo: in alcune strutture sono stati introdotti infermieri di sala d’attesa, che accompagnano e informano i pazienti, e dispositivi di allarme indossabili per il personale, capaci di segnalare in tempo reale situazioni di pericolo e permettere un intervento immediato delle forze dell’ordine. Accanto a queste misure, sono stati avviati anche percorsi di supporto psicologico per medici e infermieri. Ma serve un impegno più profondo: chi dedica la propria vita alla cura degli altri non può e non deve lavorare nella paura.

Da anni si parla di “malessere dei medici”. È un tormentone o un problema reale?

È un problema assolutamente reale. Il malessere dei medici si traduce in malessere del servizio sanitario e, di conseguenza, in malcontento dei pazienti. È vero che i finanziamenti alla sanità sono aumentati, ma restano insufficienti rispetto ai costi delle nuove terapie, delle tecnologie e dell’invecchiamento della popolazione. La soluzione, in teoria, sarebbe semplice: assumere più medici e infermieri, ma i fondi non bastano. A questo si aggiunge l’ondata di pensionamenti dei professionisti nati tra il 1955 e il 1960, che ha creato uno squilibrio destinato ad attenuarsi solo tra il 2027 e il 2028. Oggi prevalgono soluzioni emergenziali, quando invece servirebbe una visione a lungo termine. La sanità italiana resta di alto livello, ma l’accesso alle cure non è più equo: chi ha mezzi economici trova risposte nel privato, chi non li ha affronta difficoltà crescenti.

Lei ha formato generazioni di giovani medici. Com’è la situazione oggi?

Il corso di laurea in Medicina in Italia è di buon livello: forma professionisti solidi sul piano teorico e, nella fase iniziale, anche pratico. Il problema nasce dopo la laurea. Un medico neolaureato può fare ben poco se non accede a una scuola di specializzazione o al corso per medici di base. Negli ultimi anni il Ministero ha aumentato i posti e le borse di studio, ma un quarto delle specialità è rimasto scoperto, proprio nei reparti più critici: anestesia, urgenza, chirurgia. Al contrario, scuole considerate meno impegnative, come oculistica, dermatologia o chirurgia plastica, risultano sature. Questo perché i giovani sanno che alcune specialità offrono carriere difficili, mal retribuite e con pochi sbocchi professionali. In sintesi, li formiamo bene, ma poi non li accompagniamo nel completamento del loro percorso professionale.

Com’è nata la sua vocazione per la medicina?

È nata da una curiosità scientifica: amavo la biologia e il corpo umano, ero affascinato dai meccanismi della vita. Poi ho incontrato maestri straordinari, chirurghi che mi hanno portato in sala operatoria e mi hanno trasmesso la passione per questo mestiere. È stato un colpo di fulmine, e da allora la chirurgia è diventata la mia strada. Oggi manca proprio questo: la trasmissione della passione, non solo della competenza tecnica. Dobbiamo tornare a comunicare ai giovani la bellezza di questa professione, perché è lì che nasce la vera vocazione.

L’intelligenza artificiale e la medicina digitale stanno cambiando la sanità. Qual è la sua opinione?

Stiamo vivendo un momento storico di transizione, dal modello tradizionale alla medicina digitalizzata. È un passaggio entusiasmante ma complesso: ci siamo già dentro, anche se non siamo ancora pienamente preparati a gestirlo. L’intelligenza artificiale, se usata con criterio, sarà uno strumento straordinario. Penso, ad esempio, al fascicolo elettronico 2.0, che permetterà di interconnettere i dati dei pazienti, migliorando la gestione delle liste d’attesa e la distribuzione dei carichi di lavoro tra le strutture. Il vero rischio, però, è delegare alle macchine ciò che appartiene alla relazione umana. L’IA deve restare un mezzo per organizzare meglio la sanità, non per sostituire l’empatia tra medico e paziente. Solo così potremo unire scienza, ricerca e umanità, le tre anime che rendono la medicina davvero completa.

Proust scriveva: “Una gran parte di ciò che i medici sanno è insegnato loro dai malati”. Lei è d’accordo?

Assolutamente sì. Con l’esperienza si comprende che ogni paziente insegna qualcosa. È l’unica professione in cui una persona ti dice: “Ti affido la mia vita, la mia salute, mi fido di te.” Per questo dico sempre ai giovani: più date ai pazienti, più riceverete da loro. La medicina è scienza, ma anche relazione, fiducia ed empatia. È in questo equilibrio che risiede la sua vera umanità, qualcosa che nessuna tecnologia potrà mai sostituire.