Cristina Pasqualini: «I giovani non sono smarriti, ma fragili e pieni di risorse»
di Claudio Capitini | 17 Ottobre 2025Quando si parla di giovani, si tende a descriverli come superficiali, fragili, smarriti o dipendenti dai social. La realtà, secondo Cristina Pasqualini, docente di sociologia all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e componente dell’Osservatorio Giovani dell’Istituto Giuseppe Toniolo, è molto più sfumata. Ospite di Verona Salute su Radio Adige TV, ha commentato i risultati del Rapporto Giovani, la più ampia indagine nazionale sulla condizione giovanile in Italia, mettendo in luce vulnerabilità e potenzialità della Generazione Z.
Il Rapporto Giovani smentisce molti luoghi comuni. Come definirebbe questa generazione?
Direi che non è una generazione smarrita o priva di valori, come spesso viene descritta. È una generazione che porta con sé fragilità e vulnerabilità, ma anche molte risorse. Il compito dell’Osservatorio Giovani dell’Istituto Toniolo è proprio quello di indagare in modo scientifico quali valori e risorse animano i ragazzi di oggi, superando gli stereotipi che li rappresentano solo per le loro debolezze. Tutte le generazioni, anche quelle passate, hanno attraversato momenti di incertezza: ciò che conta è riconoscere e valorizzare le potenzialità che questi giovani esprimono.
La scuola resta un punto di riferimento o ha perso il suo ruolo educativo?
La scuola è e resta una palestra fondamentale di vita. I giovani oggi vivono in un tempo accelerato, hanno fretta di sperimentare, mentre l’apprendimento richiede lentezza e costanza. Per questo devono essere educati a stare a scuola secondo i tempi e le modalità proprie dell’istruzione, che ha i suoi ritmi e le sue regole. A scuola non si apprendono solo le hard skills, come leggere, scrivere o far di conto, ma anche le soft skills: saper convivere, condividere, discutere, affrontare i problemi in modo democratico. È un luogo insostituibile di crescita personale e sociale. Certo, la scuola deve aggiornarsi e comprendere chi sono i giovani di oggi, ma anche loro devono imparare a rispettarne i tempi e le tradizioni, perché è proprio lì che si forma il loro modo di stare nel mondo.
Il tema dell’uso del cellulare a scuola divide molto. Cosa ne pensa?
Sono riflessioni importanti, perché è evidente che i cellulari li abbiamo dati noi adulti ai nostri giovani: c’è quindi una corresponsabilità del mondo adulto. In molti casi si è fatto un uso un po’ disinvolto, senza regole chiare in famiglia, e questo atteggiamento si è poi riflesso anche a scuola, soprattutto negli istituti superiori. Per questo credo che non si debba punire, ma educare: la scuola può diventare il riferimento principale per insegnare un uso consapevole dello strumento.
Un altro aspetto delicato riguarda l’educazione sentimentale. Perché molti giovani confondono gelosia e amore?
Questo è un tema che rientra pienamente nel campo dell’educazione sentimentale, di cui deve occuparsi innanzitutto la famiglia, ma anche la scuola, che può e deve continuare questo percorso. Dalle nostre indagini emerge una certa immaturità fisiologica nella componente maschile, mentre le ragazze appaiono più mature e riflessive. È necessario costruire un percorso educativo anche su questo fronte, e molte scuole si stanno muovendo in modo intelligente e sensibile. Tra le realtà più attive c’è la Fondazione Cecchettin, che dopo la tragica vicenda di Giulia Cecchettin si sta impegnando a portare nelle aule percorsi educativi mirati alla consapevolezza e al rispetto.
Che ruolo ha oggi la famiglia in questo percorso educativo condiviso?
Non esiste una ricetta, ma è in corso un cambiamento culturale profondo. Le nuove generazioni raccontano famiglie più equilibrate nella divisione dei ruoli tra madre e padre, soprattutto in tema di educazione, regole e valori. Restano differenze, certo, ma cresce la condivisione delle responsabilità. I giovani imparano dai genitori osservandoli ogni giorno: non c’è educazione più forte della testimonianza. E forse dovremmo anche imparare a diventare genitori, perché è un ruolo che si assume spesso senza preparazione, ma che si può sempre coltivare e migliorare nel tempo.
Dopo la pandemia, i social sembrano aver sostituito le relazioni reali. Come si torna alla fisicità?
Durante la pandemia abbiamo detto ai giovani che potevano restare a casa e collegarsi con gli amici attraverso i social, e così hanno finito per sostituire la presenza fisica con quella virtuale. Oggi dobbiamo riportarli alla dimensione del reale, senza demonizzare la tecnologia ma ritrovando equilibrio: la relazione diretta è più ricca e autentica. In questo senso, la scuola resta il primo luogo di incontro vero, un’esperienza che va riscoperta e valorizzata.
L’intelligenza artificiale è una minaccia o un’opportunità per i più giovani?
È un’opportunità, non un’emergenza sociale, ma serve educazione all’uso responsabile. Gli adulti faticano a comprenderla, ma hanno basi più solide; per i ragazzi, invece, che stanno ancora costruendo conoscenze e regole, affidarsi solo all’IA è rischioso. Deve restare un supporto, non una scorciatoia. Quando manca la relazione umana, l’uso della tecnologia può diventare distorto: serve accompagnamento, non sostituzione.
Molti disturbi giovanili emergono sempre prima. È un segnale di allarme?
È un allarme, ma anche un segno di maggiore attenzione e prevenzione. Riuscire a riconoscere questi fenomeni in età precoce è positivo, anche se la pandemia ha lasciato ferite profonde: ansia, disturbi alimentari, attacchi di panico, depressione. La scuola oggi è in prima linea: deve essere pronta ad accogliere la complessità umana dei ragazzi, con docenti formati e capaci di costruire percorsi di benessere e inclusione. Perché anche nelle fragilità si nascondono risorse e talenti che meritano di essere valorizzati.
In un mondo così affannato, i giovani riusciranno ad abitare davvero il futuro?
Certo che sì. Hanno tutti gli anticorpi e il tempo per farcela, se sostenuti dai giusti supporti. Dobbiamo dare loro fiducia, spazio e ascolto, accompagnarli in un tempo che non è facile per nessuno. I ragazzi possono farcela, ma hanno bisogno di sentirsi parte di una comunità che crede in loro. Il futuro si costruisce solo così: con un patto tra le generazioni, fondato su responsabilità e ascolto reciproco.


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