Il Verona Campione d’Italia: «Eravamo una squadra vera, dentro e fuori dal campo»

di Redazione | 30 Ottobre 2025
Il 12 maggio 1985 l’Hellas Verona scrisse la pagina più bella della sua storia, conquistando il suo unico scudetto. Fu il coronamento di un percorso straordinario: gli uomini di Bagnoli erano riusciti a creare un gruppo coeso e unito che grazie ad un calcio semplice ma efficace conquistò un trionfo storico e inaspettato. Tra i…

Il 12 maggio 1985 l’Hellas Verona scrisse la pagina più bella della sua storia, conquistando il suo unico scudetto. Fu il coronamento di un percorso straordinario: gli uomini di Bagnoli erano riusciti a creare un gruppo coeso e unito che grazie ad un calcio semplice ma efficace conquistò un trionfo storico e inaspettato. Tra i protagonisti di quell’impresa ci sono Domenico Volpati, Luigi Sacchetti, Giuseppe Galderisi e Pierino Fanna, ospiti di Palla Lunga e Raccontare su Radio Adige TV, dove hanno raccontato a Raffaele Tomelleri e Serena Mizzon i loro ricordi di quel Verona campione d’italia. 

Cosa provate oggi ripensando alla partita che vi fece vincere lo scudetto?

Domenico Volpati: Brividi, sempre. Sono ricordi che ti lasciano un segno per forza. Quell’anno fu straordinario, ma la parte più bella fu il ciclo che si era creato: il tempo di preparazione prima della grande stagione e poi la maturità che ci portò non solo allo scudetto, ma anche a due quarti posti negli anni successivi, segno di grande solidità e maturità. Eravamo una squadra semplice e senza fronzoli ma proprio per questo speciale. .

Giuseppe Galderisi: Sì, quello era un gruppo magnifico. Anche se arrivai dopo rispetto agli altri, mi sono inserito in una famiglia vera. Il ricordo di quegli anni resta meraviglioso e indelebile.

Volpati, si dice che quando Bagnoli ti ha chiamato al Verona volevi lasciare il calcio. È vero? 

D: È vero. Mister Bagnoli mi aveva già allenato nella Sovietese nel ’72 e poi al Como nel ’78. Quando mi chiamò a Verona, mi disse che aveva bisogno di me. Io però avevo trent’anni e volevo finire la laurea in medicina per cui gli risposi subito di no. Avevo sempre vissuto con “un piede in due scarpe”: quando nel calcio le cose non andavano bene, mi rifugiavo nello studio. Poi, quell’estate, ci incontrammo di nuovo sul campo e lui insistette: mi voleva nel suo Verona. Passai notti intere a pensarci, ero indeciso, ma alla fine accettai. L’università, poi, l’ho finita lo stesso, ma quella scelta si rivelò la mia fortuna: altri sei anni di Serie A, uno scudetto e moltissimi ricordi stupendi.

In che modo quel gruppo era diverso dagli altri?

D: Ho giocato nel Torino con Pulici, Graziani, Sala, Zaccarelli: sette nazionali, giocatori fortissimi, ma non erano una squadra. A Verona invece sì. Qui si era creato qualcosa di straordinario, che andava oltre gli schemi e le capacità dei singoli. Siamo riusciti ad essere una squadra vera, dentro e fuori dal campo. E lo siamo ancora oggi, dopo tanti anni.

Sacchetti, tu e Volpati siete sempre stati molto legati. Come è nata la vostra amicizia?

Luigi Sacchetti: Con Volpati ci siamo incrociati ovunque: Reggiana, Atalanta, Torino. Quando io ero alla Juventus e lui al Toro, ci si incontrava perfino nei “ristoranti neutrali”, quelli a metà strada tra le due squadre. Poi il destino ha voluto che, nel 1982, io arrivassi a Verona dalla Juve e lui dal Brescia. Abbiamo condiviso anni bellissimi e siamo diventati come fratelli. Lui mi rimprovera sempre, scherzando, e dice che sono andato via solo perché non volevo vincere un altro scudetto.

Si dice sempre che i giocatori di quel Verona erano gli “scarti delle grandi”. È davvero così?

L: Non direi scarti. Le grandi squadre semplicemente non davano tempo ai giovani di maturare: preferivano chi era già pronto, chi poteva dare subito risultati. Io alla Fiorentina ero stato definito “il mediano del futuro”, ma poi scelsero un trentatreenne e mi mandarono via. A Verona, invece, ho trovato entusiasmo, stimoli e fiducia. Nessuno ci obbligava a stare insieme, eppure stavamo sempre tra noi, perché stavamo bene così. Quella è stata la nostra forza, il segreto di un gruppo vero.

Galderisi, sei arrivato una stagione dopo gli altri. Che gruppo hai trovato al tuo arrivo?

Giuseppe Galderisi: Ho trovato gli uomini giusti, prima ancora dei giocatori. Ricordo il primo giorno di ritiro a Cavalese: il mister prese la lavagna, scrisse la formazione e io non c’ero. Finito l’allenamento, chiamai Boniperti per tornare alla Juve o andare all’Avellino, che mi voleva già allora. Per fortuna mi fermarono. A Verona ho trovato persone vere, un gruppo unito e pieno di valori. Anche Joe Jordan, che pure perse il posto per me, fu come un fratello: mi aiutò, mi sostenne, mi fece sentire parte della squadra. Da lì è nato un gruppo straordinario, e lo scudetto fu solo la naturale conseguenza di quel legame.

C’è un episodio che racchiude quello spirito di gruppo?

D: Sì, la partita di Coppa UEFA a Belgrado. Segnò Galderisi e andò ad abbracciare Joe Jordan, che era in panchina. Era stato scelto lui al suo posto, ma non ci fu nessuna rivalità. Quell’abbraccio fu la fotografia perfetta di noi: un gruppo unito, capace di restare insieme anche nelle scelte difficili.

G: È vero. Quando ci sentiamo oggi, si percepisce ancora quell’affetto, quella sintonia che ci legava allora. Eravamo, e siamo, una famiglia vera, dentro e fuori dal campo.

Cos’era lo spogliatoio del Verona?

Pierino Fanna: Era sacro. In quegli anni la società fece una campagna acquisti incredibile: da Juventus, Fiorentina e Torino arrivarono giocatori che altrove erano riserve, ma a Verona trovarono fiducia e libertà. Mister Bagnoli parlava poco, ma aveva un modo tutto suo di gestire il gruppo: ci lasciava decidere chi poteva giocare, chi andava richiamato, perfino come tenere in riga chi esagerava. E poi c’erano le cene del mercoledì: se vincevamo, andavamo ai Vecchi Torcolotti in centro. Lo dicevamo al mister: “Facciamo un allenamento lungo, poi tutti a mangiare”. E lui acconsentiva, felice come noi, perché sapeva che quella tavola era il vero segreto del nostro spogliatoio.