Adriano Bardin: «Rimarrò sempre un portiere, dentro di me»

di Redazione | 13 Dicembre 2025

Portiere affidabile, essenziale, mai sopra le righe: Adriano Bardin è stato uno dei volti simbolo del Lanerossi Vicenza tra gli anni Sessanta e Settanta. Nato a Schio nel 1944, ha costruito la propria carriera partendo da lontano, alternando per anni gli allenamenti al lavoro in fabbrica, prima di affermarsi stabilmente tra i professionisti e collezionare oltre 150 presenze in Serie A. Ospite di Raffaele Tomelleri e Serena Mizzon a Palla Lunga e Raccontare, su Radio Adige TV, Bardin ripercorre il suo cammino umano e sportivo: dagli inizi improvvisati tra due piante all’oratorio al primo contratto da calciatore, passando per errori difficili da cancellare, vittorie liberatorie e quella solitudine del portiere che, ancora oggi, dice di rimpiangere più di ogni altra cosa.

Da bambini molti sognano di segnare gol e giocare in attacco. Lei invece ha sempre voluto fare il portiere?

Ho sempre giocato in porta, fin da quando ero bambino. A scuola, durante la ricreazione, o all’oratorio, si giocava sempre a calcio. Io mi mettevo tra due piante: quella è stata la mia prima porta. E paravo. Un giorno don Nicola, che qualcosa capiva, mi disse: «Tu diventerai portiere». Tornai a casa felice e lo raccontai a papà. Lui mi rispose: «Portier ti? Sì, un portier de la fabrica». All’epoca il calcio non era visto come un possibile lavoro. Anzi, era considerato quasi un ostacolo a un posto fisso, a uno stipendio sicuro.

E allora come è riuscito a diventare un portiere professionista?

Da ragazzo lavoravo in fabbrica, dovevo farlo. Però riuscii a ottenere il permesso di lavorare mezza giornata, perché il pomeriggio mi allenavo. Andai avanti così fino ai diciotto anni. Un giorno Scopigno, il mister del Vicenza di allora, mi disse: «Basta ragazzo, adesso devi fare il calciatore». Da lì arrivò il mio primo contratto. La società mi dava trentamila lire al mese, che per quei tempi erano un’enormità.

Il portiere è spesso ricordato più per un errore che per una grande prestazione. Le viene in mente un episodio in cui è successo anche a lei?

Fa parte del gioco. La cosa peggiore, dopo un errore clamoroso, è dover restare in campo e continuare a giocare. Una volta però fu davvero difficile. Giocavo nel Vicenza, era la prima di campionato, contro il Cagliari. Dopo cinque minuti Hitchens, un attaccante inglese, tira verso la mia porta. Non è un tiro irresistibile: lo vedo partire e penso di prenderlo tranquillamente andando giù in tuffo. Invece la palla batte sulla linea dell’area piccola, fatta con la calce, prende uno strano rimbalzo e finisce dentro. Sudo freddo. Scapperei via, ma devo restare. A quel punto tanto vale cancellare l’errore e continuare a giocare. Nel secondo tempo però vinciamo 2-1. Il gol decisivo lo segna l’uruguaiano De Marco. Sotto la doccia gli dico: «Grazie, mi hai salvato». E lui mi risponde: «Ma scherzi? Sbagliano i portieri come sbagliamo noi attaccanti». Non è finita lì. Il martedì successivo, in allenamento, il mister Silvestri mi fa: «Ma cos’hai combinato?». Io non gli dico della calce, sto zitto. A quel punto si avvicina Negri, che era il titolare, e mi dice: «Ma dai, diglielo, no?». Io ero fatto così: non mi piaceva cercare scuse.

Sente ogni tanto la mancanza del campo e della sua porta?

Rimarrò sempre un portiere, dentro di me. Ancora oggi mi emoziono per una grande parata e soffro per un errore clamoroso dei portieri: li sento sempre miei. Ancora adesso, rimpiango la solitudine dei portieri. La mia, la vivevo al fischio finale, quando dalla porta raggiungevo gli spogliatoi. Solo con me stesso. Ripercorrevo la partita, gli errori, le parate, le emozioni. Questo mi manca oggi. E mi mancherà sempre.