Filippo Chignola: «Cresciuto tra Cannavacciuolo e Ana Roš, ora coltivo la passione in famiglia»

di Camilla Faccini | 4 Novembre 2025

C’è qualcosa di profondamente autentico nella voce di Filippo Chignola, giovane chef de La Casa degli Spiriti, quando racconta il proprio percorso. Nelle sue parole si avverte la serenità e la consapevolezza di chi ha scelto di crescere passo dopo passo, anche lontano da casa, seguendo il ritmo delle stagioni che scandiscono i menù, senza mai dimenticare il profumo del pane appena sfornato e il valore della sua condivisione. È a lui che la nuova edizione della Guida Venezie a Tavola ha assegnato il premio Giovane dell’Anno, riconoscendogli visione, tecnica e profondità di pensiero. Un premio che guarda al futuro e racconta un’idea di continuità: perché Filippo Chignola non è soltanto un giovane cuoco di talento, ma il simbolo del nuovo capitolo di un luogo iconico della ristorazione veronese. Oggi La Casa degli Spiriti vive una seconda giovinezza grazie all’energia dello chef e del fratello Lorenzo, sommelier, affiancati dalla guida esperta e appassionata dei genitori e fondatori, Federico Chignola e Sara Squarzoni. Una famiglia che, trent’anni dopo l’apertura, continua a credere nella bellezza della tavola come spazio di incontro, racconto e condivisione, testimoniato anche dalla recentissima “Corona Radiosa” ottenuta nella guida ilGolosario Ristoranti a cura di Paolo Massobrio e Marco Gatti, e dal Premio Speciale “Migliori Tavole dell’anno”, riservato ai locali capaci di offrire un’esperienza di tavola memorabile sotto ogni punto di vista.

Chef, partiamo dagli eventi più recenti. Come è stato ricevere questo premio?
Inaspettato, sinceramente, ed emozionante. L’ultimo premio di questo livello lo ricevette mia mamma, credo una decina d’anni fa, quando fu nominata “Donna di spirito” proprio da Venezie a tavola. Due persone della stessa famiglia premiate è stata una grande gioia.

Un grande affare di famiglia. Possiamo dire che sei stato un predestinato della cucina?
Ci sono letteralmente nato dentro. Vivendo sopra al ristorante, fin da piccolo scendevo in cucina dopo la scuola per fare biscotti, torte, grissini. Mio papà mi ha trasmesso la passione, ma mia nonna paterna mi ha insegnato il valore della condivisione. È ciò che cerco di portare nei miei menù: far sentire ogni ospite a casa, accolto come in famiglia.

Il ristorante è nato con i tuoi genitori?
Sì, e l’anno prossimo festeggeremo trent’anni di attività. È un traguardo importante, che celebreremo con un evento speciale.

Vi siete anche rinnovati recentemente.
Esatto. Da circa un anno abbiamo rivoluzionato il nostro ex bistrot, oggi Spiritino Osteria: una cucina più classica, golosa e accessibile, per accogliere una clientela più quotidiana.

Come si è articolata la tua formazione?
Ho frequentato l’Istituto Alberghiero di Riva del Garda fino al quarto anno, poi ho proseguito presso la Scuola di Alta Formazione di Tione, che mi ha fornito una preparazione completa nel settore enogastronomico. Grazie a questa esperienza ho potuto lavorare in realtà come Villa Crespi, con Antonino Cannavacciuolo, e Hiša Franko in Slovenia, al fianco di Ana Roš.

Due nomi incredibili della ristorazione. Com’è stato lavorare con loro?
A Villa Crespi sono entrato da stagista a 19 anni, il più piccolo della brigata, e ne sono uscito dopo una stagione come commis, quasi demi-chef. È stato un grande salto. Lo chef l’ho visto poco, ma ho lavorato con il suo sous-chef e il pasticcere: persone straordinarie, da cui ho imparato tantissimo, anche umanamente. Da Ana Roš, invece, l’esperienza è stata più complessa: la cucina era internazionale e all’inizio non era facile capirsi. Lì ho scoperto la libertà creativa, l’idea di uscire dagli schemi, di sperimentare gusti, spezie, tecniche da tutto il mondo. È stato il mio grande exploit: sono uscito dal quotidiano.

Quando hai preso le redini della tua cucina?
Da circa un anno e mezzo, quando con la mia famiglia abbiamo deciso che fosse il momento. Da allora ho costruito la mia identità e, soprattutto, la mia squadra. Sono orgoglioso dei miei ragazzi: li ho formati e con loro ho creato fiducia e amicizia.

Hai incontrato difficoltà nella gestionei della brigata, magari legate alla giovane età?
Sì, serve pazienza. Ho costruito la squadra con calma, cercando di creare un ambiente sereno. Per me è fondamentale che tutti stiano bene, in cucina e in sala. Se uno affonda, affondiamo tutti insieme: solo così si crea qualcosa di unico.

Oggi come definiresti la tua cucina? Da dove trai ispirazione?
Dalla tradizione e dal territorio. Cambiamo menù tre volte l’anno, seguendo le stagioni. Mi piace mantenere salde le radici, ma con tocchi di innovazione, tecniche moderne e nuovi gusti. La condivisione resta il fulcro: per esempio, la nostra “mantovana” – un pane che serviamo intero da spezzare con le mani – nasce dal ricordo di mia nonna, che lo portava in tavola la domenica per condividerlo con tutti.

Se dovessi citare qualche piatto che rappresenta di più la tua cucina?
Sicuramente il Chawanmushi, un budino giapponese all’uovo che reinterpreto ogni stagione: ora è ai ricci di mare, con gambero rosso e nocciola piemontese, un’unione tra Sardegna e Piemonte. Poi il “Sri Lanka Flavor”, che unisce profumi e spezie srilankesi con gesti e tecniche italiane, ispirato a un lungo viaggio.

Un piatto di un altro chef che avresti voluto inventare?
Lo scampo alla pizzaiola di Cannavacciuolo. È un piatto semplice solo in apparenza: quando lo assaggi, è un’esplosione di sapori e di emozioni. Ti manda fuori di testa. 

Un piatto che non ti piace?
Difficile dirlo! Mangio di tutto. Amo anche la pasticceria – in realtà volevo fare il pasticcere, al contrario di quanto accade con tanti grandi chef – e adoro fare il pane. Mio nonno aveva un panificio, quindi ce l’ho nel sangue.

Se dovessi scegliere un piatto da mangiare ogni giorno?
Risotto, tutta la vita. Di pesce, di carne, alla parmigiana… adoro farlo e mangiarlo. Mio padre ne faceva sempre, e lo associo a casa, a calore, a comfort.

Provenendo dai tre stelle Michelin, come vivi il tema della sostenibilità nella tua cucina e dell’equilibrio tra vita e lavoro?
Ho grande rispetto per i ristoranti stellati in cui ho lavorato: in quel periodo avrei potuto stare in cucina anche 24 ore al giorno, perché era il momento di dedicare tutto me stesso alla mia crescita. Nel tempo, però, ho capito che lavorare 17 o 18 ore al giorno non è vita. È una dedizione totale, bellissima ma logorante. Oggi ho scelto un modello più sostenibile: chiedo ai ragazzi di entrare ogni giorno con il sorriso e di avere tempo per sé. I pomeriggi sono liberi. Se stai bene, lavori meglio. Questa, per me, è la vera sostenibilità.