Gianfranco Zigoni: «Verona è rimasta dentro di me, ma forse li ho un po’ traditi»

di Redazione | 25 Ottobre 2025

Gianfranco Zigoni, trevigiano classe 1944, è stato uno degli attaccanti più talentuosi e imprevedibili del calcio italiano. Ha vestito le maglie di Juventus, Roma, Genoa, Brescia e soprattutto Verona, dove è rimasto nel cuore dei tifosi per classe, carisma e autenticità. Ospite di Raffaele Tomelleri e Serena Mizzon a Palla Lunga e Raccontare su Radio Adige TV, Zigoni ha ripercorso con ironia e sincerità la propria storia, tra ricordi, passioni e quell’irrinunciabile spirito libero che lo ha reso un personaggio unico.

Hai rimpianti per la tua carriera?
No, davvero. Verona è rimasta dentro di me. Quando vedo giocare il Verona mi sembra di essere ancora in campo con loro. Non ho rimpianti, perché credo che ogni cosa sia andata come doveva andare. Il calcio mi ha dato tanto, ma non è mai stato la mia unica passione. Da bambino sognavo il rugby: avrei voluto giocare con gli All Blacks. Spero che, quando morirò, mi lascino rinascere in Nuova Zelanda per giocare con loro. 

La tua ultima esperienza professionistica è stata al Brescia, a 34 anni. Che esperienza è stata?
Al Brescia ho trovato un gruppo giovane, con Luigi Simoni in panchina, e ho cercato di dare quello che potevo. Dicevo spesso a Gigi: “Non far giocare me, fai giocare i ragazzi. Io ti do una mano quando serve.” E così è stato: da ultimi siamo arrivati a metà classifica e l’anno dopo siamo saliti in A. Gigi era un grande uomo, una persona speciale. Io l’ho aiutato come potevo, e lui ha saputo tirare fuori il meglio da tutti.

Hai mai pensato di poter dare di più?
Forse sì. Ai miei amici di Verona l’ho detto: per l’affetto e la stima che mi hanno sempre dimostrato, li ho un po’ traditi, perché avrei potuto impegnarmi di più. Loro mi ripetono che andava bene così, ma io credo che qualche gol in più e qualche partita più vissuta non avrebbero guastato. Non è vero che non ho fatto carriera per le donne: sono tutte balle. Se uno è forte, è forte. Io dopo dieci minuti ero già stanco, ma mi bastavano pochi colpi buoni, di rara bellezza, per fare la differenza. Avevo una grande forza di volontà e, quando mi sentivo in giornata, entravo in campo pensando: “Oggi nessun essere umano mi può fermare.” Quando era così, Valcareggi, il mio allenatore al Verona, diceva: “Oggi abbiamo già vinto.”

Hai conosciuto campioni come Omar Sivori alla Juventus. Che ricordo hai di lui?
Indimenticabile. Vedere Sivori era come vedere Dio. Quando arrivai a Torino avevo diciotto anni: entrò nello spogliatoio e chiese a voce alta: “Chi di voi gioca col numero 10?” Io mi nascosi, timido com’ero, ma lui insisteva. Alla fine alzai la mano. Mi guardò e disse: “Ragazzo, cambia numero: con quello non giocherai mai.” Avrei voluto sprofondare. Una volta mi disse anche: “Ragazzo, portami la valigia”, e io lo feci senza pensarci. In quegli anni c’era un rispetto vero tra giocatori: anche chi aveva solo un paio d’anni in meno dava del “lei” ai più grandi. Alla fine la maglia numero 10 andò a lui, ma dopo qualche partita insieme, quando si era creato un bel legame, glielo dissi scherzando: “Adesso la mia valigia la porti tu.” Per me era un genio assoluto, più grande di Pelé e Maradona, forse al livello di Valentino Mazzola.

Com’è stata la tua infanzia a Oderzo?
Sono cresciuto nella campagna trevigiana, in quello che chiamo “il Bronx”. A casa si parlava poco: “Ciao” e “comandi” erano le parole della giornata. Il rispetto lo imparavi guardando i genitori che lavoravano sodo, non servivano prediche. Mio padre era sempre al lavoro, mia madre ancora di più, con tanti figli da crescere. Era una donna forte, un po’ “matta”, come dicevo io, ma con un cuore enorme. Mi raccontava che nel ’44 cadevano le bombe vicino alla ferrovia e io, nel lettino, tremavo tutto: diceva che forse per quello ero diventato un po’ matto anche io. Un giorno vennero a prendermi per una prova con la Juventus. Io mi nascosi sotto il letto. Solo quando mia madre mi disse “vai”, accettai. Piangevo già a Pordenone, figurati a Torino. Era destino, ma non volevo lasciare la mia terra.

Si racconta spesso della tua grande paura dell’aereo. È vero?
Sì, terribile. Non ho paura di morire, ma dell’aereo sì. Lì sei passivo, non puoi difenderti. Io voglio morire lottando, non cadendo dal cielo. Una volta, prima di una partita decisiva a Palermo, Gigi Simoni mi disse: “Devi giocare tu.” Io risposi: “No, Gigi, io l’aereo non lo prendo.” E lui: “Ti imbottisco di whisky e pastiglie, vedrai che va bene.” Così fu. Ancora oggi non volo: non giro il mondo proprio per questo. 

Il tuo gol al volo contro il Bologna nella stagione 1973-74 è rimasto nella memoria di tutti. È davvero il più bello?
È vero. Forse è stato l’unico gol davvero bello che ho fatto. Gli altri, come dico io, erano “cazzate”. Quel giorno segnai due volte, ma alla fine mi arrabbiai con i miei compagni perché avevamo preso tre gol in casa, e il Verona allora in casa non li prendeva mai. Ma anche questo fa parte del mio modo di vivere il calcio: istintivo, sincero, senza filtri.