Sergio Guidotti: «Quella volta che l’Hellas scrisse la storia»

di Giorgia Preti | 22 Agosto 2025

Anche chi non “mastica” il calcio, sa. Sa di quel goal segnato senza scarpa da Preben Elkjaer contro la Juventus di Trapattoni. Sa delle storiche telecronache di Roberto Puliero, che appassionarono intere generazioni di tifosi. E sa della marea gialloblù che in una manciata di minuti si riversò per le vie di Verona. Lo scudetto che l’Hellas Verona portò a casa il 12 maggio 1985, non lo vinse solo la squadra – guidata da mister Osvaldo Bagnoli, indimenticato allenatore gialloblù – ma tutta la città, che soffrì e gioì insieme ai suoi ragazzi. Chi visse da vicino quel campionato ha ancora vivo nella memoria il ricordo di un’impresa che in molti definirono “miracolo” e, tra questi, c’è Sergio “Chicco” Guidotti. Figlio del Presidente Celestino “Tino” Guidotti e presidente dell’ASD Ex Calciatori Hellas Verona, ha vissuto il prima e il dopo lo scudetto ed è indiscusso custode di alcune memorie che, gentilmente, ci ha condiviso.

Sergio Guidotti

Qual è il primo ricordo che ti balza alla mente di quel giorno, il 12 maggio 1985, quando l’Hellas vinse lo scudetto?
All’epoca giocavo ancora a calcio abbastanza seriamente, in serie D, quindi quel campionato non l’ho seguito come ho seguito tanti altri e come continuo a seguire il Verona adesso, però è stata una sofferenza: il Verona è stato primo in classifica dalla 1^ alla 30^ giornata, però tutti i giornali ci davano la “data di scadenza”. C’erano tante squadre forti e vincere sembrava una cosa impossibile. La bellezza era che, in quel periodo, la città “respirava” Hellas Verona: andavi a fare la spesa al supermercato o andavi ancora a comprare il giornale o al panificio e trovavi anche signore anziane che parlavano del Verona. La cavalcata trionfale del Verona è stata vissuta dalla città, è stato un sogno.

Com’è stato respirare la stessa aria di quei campioni?
Le squadre non erano composte come le rose attuali: non c’erano 30 persone. Allora c’erano 16 giocatori, il gruppo titolare, affiancati da due ragazzi più giovani che venivano dalla primavera, come me. Quando ci troviamo tutti insieme scherzo con loro, io dico sempre: «Non ho giocato con voi, mi   cambiavo nel vostro stesso spogliatoio» (ride, NdR).

Come è stato invece condividere la casa con il presidente, tuo padre, Tino Guidotti?
Posso dire che la casa l’ho condivisa molto poco, ma non per mia negligenza: è mio papà che non frequentava la casa. Noi avevamo una concessionaria di auto di famiglia, quindi lui lavorava in concessionaria, ma credo che di averlo visto veramente poche volte a casa, sia a pranzo che a cena, perché essere il presidente del Verona gli assorbiva moltissimo tempo, soprattutto nelle relazioni.

C’è un aneddoto che negli anni la fa ancora sorridere?
Ce n’è uno che non ho mai raccontato. Naturalmente con mister Bagnoli, da giocatore ad allenatore mi sono sempre rivolto con un rispettosissimo “lei”. E l’ho sempre fatto anche negli anni seguenti, quando frequentava l’associazione. E frequentandosi insieme, un giorno mi ha detto «Chicco, ma puoi darmi del tu!». Io candidamente gli ho detto «mister, io non ci riuscirò mai, perché per me la forma di rispetto maggiore è poterle dare del lei».

Quali sono gli ingredienti di questo miracolo calcistico che è stato l’Hellas?
Una rivista americana ha messo l’impresa del Verona fra le 10 più grandi imprese sportive di tutti i tempi. E concordo in pieno. È stato un miracolo, però non dimentichiamo che è successo perché poi sono arrivati due giocatori straordinari, Hans-Peter Briegel e Preben Elkjaer. Uno dei meriti del Verona è stato quello di arrivare su Elkjaer durante i mondiali in Francia. Bisogna dare atto al dottor Rangogni, all’epoca AD dell’Hellas, che ha fatto firmare Elkjaer e depositato il contratto da un notaio a Parigi, evitando che altri club lo portassero via.

Il calcio di oggi è stato rivoluzionato da VAR, diritti TV, social… come ha vissuto questo cambio?
Io e credo tutti quelli della mia generazione, calciatori o meno, si ritrovano molto poco in questo calcio. Sicuramente si è perso lo spirito. C’è anche un grosso dispiacere per la perdita d’identità di tantissimi calciatori italiani. E questo si riflette anche sui risultati della nazionale. La ricerca del giocatore straniero, tante volte non è necessaria.

Nei giovani quanto è vivo il ricordo raccontato da genitori e nonni di quell’epoca?
Mi hai fatto una bellissima domanda. Il merito maggiore va ai nonni, ai papà, alle mamme. Il Verona nel ‘90 fallisce, inizia un saliscendi tra serie A e B, arriva anche alla Lega Pro. In quel momento si è avvertita la forza del tifoso del Verona: i nonni, i papà, le mamme tifose hanno continuato a raccontare ai ragazzini quello che era. Il merito va ai vecchi tifosi che hanno trasmesso il valore e la passione.

Se potessi trasferire un valore della squadra di allora alla squadra di adesso, quale sarebbe?
Sicuramente la capacità di fare gruppo. Cosa che adesso è quasi impossibile perché i giocatori parlano 8-10 lingue diverse. Vivono in completo isolamento. Non è più come prima che per andare al campo passavi in mezzo ai tifosi. Adesso tutto è a porte chiuse, manca completamente il rapporto col tifoso.

Come te lo immagini il 50° anniversario?
Guarda, ho partecipato a una cena tra i ragazzi dello scudetto e si è scherzato molto sulla possibilità di festeggiare ogni anno per lo scudetto del 1985 e Galderisi ha detto: «Sì, ma al cinquantesimo ci sarò solo io, perché io sono il più giovane». È stato molto carino. Preben Elkjaer, quel weekend in cui abbiamo festeggiato, era a Londra per lavoro insieme ai proprietari di LEGO, una famiglia a cui è molto legato. Lui alla mezzanotte di sabato ha chiamato Tricella e ha detto: «Io domani vengo a Verona». Alla fine, è arrivato con l’aereo privato dei proprietari della LEGO. È stata un’emozione grandissima.