Stefano Poda: Verona e il “multiverso” dell’arte
di Alice Martini | 11 Giugno 2025È un artista a tutto tondo: non si definisce né un regista nel senso stretto, ma nemmeno uno scenografo, un costumista o un coreografo. Per molti (e anche per noi), Stefano Poda può tranquillamente definirsi come creatore di un linguaggio nuovo che oggi, per il terzo anno consecutivo, l’ha portato con grande entusiasmo a dare la sua impronta al Festival Lirico Areniano, che aprirà per la prima volta con la nuova produzione di Nabucco, dopo l’Aida “di cristallo” del 2023. Poda ci ha raccontato la sua esperienza unica nella città che, ormai, è diventata una “casa estiva” dove, da qualche anno a questa parte, ha «un’occasione imperdibile di ricostruire un grande universo parallelo, fatto puramente d’arte».
Partiamo dal principio: quale esperienza del suo percorso le ha fatto comprendere che questa sarebbe stata la sua strada?
Per fortuna ho intuito molto presto che solo l’opera mi avrebbe dato la possibilità di riunire tutto: scrittura e disegno, sogno e storia. Ho iniziato a lavorare molto presto e da allora non ho mai smesso un solo giorno. Inizialmente l’idea e la suggestione di Wagner mi ispiravano, anche se poi nella mia carriera sono cresciuto molto prima grazie a Mozart e poi a Verdi.

Quest’anno è per Lei il terzo alla Stagione Lirica in Arena, che esperienza è quella dell’Arena di Verona?
Un’occasione imperdibile di rafforzare il mio eterno sogno di grande “bottega” rinascimentale, nel senso di opificio capace di ricostruire un grande universo parallelo, fatto puramente d’arte. Neppure nel cinema, per esempio, è concesso questo privilegio perché condizionato da leggi commerciali oppure dalla corrente realista che appiattisce il nostro tempo. L’esperienza in Arena mi ha dato principalmente la possibilità di dirigermi ogni sera a molte migliaia di persone che forse a teatro non andrebbero mai, di convincerle a restare, di accompagnarle in un viaggio sensoriale tra passato ancestrale e futuro proprio. E magari, poi, ritornare.
Torna Aida nell’edizione “di cristallo” che ha celebrato il 100° Festival, una proposta innovativa che ha fatto anche discutere.
È stata un’esperienza straordinaria per accedere ad un pubblico nuovo, vasto e aperto (non solo operistico e non solo casuale) che ha sempre riempito completamente tutte le tante rappresentazioni fino ad oggi. Per me poi conta la risposta e l’emozione dello spettatore, durante e alla fine dello spettacolo; per questo cerco sempre di esserci ad ogni recita per accompagnare e capire, anche tornando da lontano e sacrificando altri impegni. Non ricordo discussioni e non ascolto lodi, mi importa il fatto concreto e penso sempre a come cambiare. Altra soddisfazione: esporre a Milano i costumi di Aida alla Design Week, gettando un ponte tra mondo del teatro e mondo del design e portando quindi nuovo pubblico, magari quel pubblico di stranieri che vengono in Italia alla ricerca di una dimensione anche estetica. Questo non sarebbe mai stato possibile in un teatro convenzionale.

La vera novità quest’anno è Nabucco, definito “atomico”, perché contrappone ragione e fede, tecnologia e filosofia…
Trattandosi di un capolavoro universale, ho inteso sottolineare l’unità delle arti: Nabucco sarà rappresentato da due polarità che si attraggono e si respingono durante tutta l’azione scenica, fino ad un punto di massima repulsione e scissione, per poi arrivare alla sintesi del finale in cui i due opposti si riconciliano. La metafora è quella dei legami fra le particelle atomiche: dalla loro unione si origina la materia, ma l’uomo ha scoperto come separarle causando totale distruzione. Il progresso tecnologico rende tutto possibile e il sovrano babilonese non esita ad usare la sua superiorità materiale contro gli sconfitti, fino ad arrivare a conseguenze drammatiche: l’insegnamento di questo capolavoro è che la razionalità, per essere ben diretta, non può prescindere dalla spiritualità. L’argomento non può ridursi a una lotta tra due popoli, né a un illusorio aggiornamento del libretto, per raccontarci senza originalità che la storia umana si ripete.
Qual è il suo rapporto con la simbologia all’interno delle sue rappresentazioni?
Il concetto dell’arte contemporanea implica una sorta di inversione di prospettiva: non è l’opera d’arte a comunicare un messaggio, ma lo spettatore a crearlo. Questa è la bussola che orienta il mio lavoro: offrire uno strumento ottico sufficientemente complesso e stimolante, affinché chi vede e ascolta non veda e ascolti solamente una storia, ma la storia del proprio sé. In sostanza, essere spettatori di sé stessi, in una dimensione profonda come quella dei personaggi, che, cantando, vivono una loro realtà interiore… come un ricordo pregresso… come in una regressione psicologica a cui lo spettatore partecipa in maniera attiva e creativa. Lo spettatore diventa il vero artefice in un gesto che è segno distintivo del contemporaneo.
E con la tecnologia e l’arte?
Con la tecnologia ho una relazione di prudenza. Bisogna resistere all’entusiasmo momentaneo: l’arte deve resistere fuori e oltre il tempo. Eppure, in questo Nabucco c’è a proposito l’uso di molta tecnologia proprio per rappresentare un mondo (quello babilonese) razionale ed avanzato. Si sono fabbricati 10.000 pezzi di altissima tecnologia per comporre le 950 corazze dei mimi, ballerini, comparse. Una sfida tecnologica enorme e importante per le maestranze dell’Arena, soprattutto per i responsabili dei reparti costumi e luci.
Da addetto ai lavori, come è vista l’arte dell’Opera all’estero?
Ripeto sempre che del genere operistico abbiamo sfruttato ancora una minutissima percentuale di possibilità, siamo appena agli inizi. Opera è unione di arti, è arte totale, dunque una chiave per scoprire universi infiniti. Questo succederà quando si smetta di applicare all’opera il linguaggio di altri generi, quali il cinema o simili.
Quale crede possa essere la sua personale peculiarità come artista?
Non mi sento un regista nel senso stretto, neppure uno scenografo o un costumista o un coreografo. Ho scoperto, inventato e sviluppato un mio linguaggio, una mia maniera peculiare di esprimermi grazie ad un lavoro indipendente e completamente autonomo.


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