Damiano Tommasi, a tutto campo

di Giorgia Preti | 2 Luglio 2025

Da piccolo rincorreva i fratelli sulle montagne di Sant’Anna d’Alfaedo, con il pallone sempre tra i piedi e il sogno – allora inconsapevole – di una vita da calciatore. Damiano Tommasi non ha mai smesso di correre: prima per guadagnarsi un posto in Serie A, poi per vincere uno scudetto con la Roma, poi ancora per rialzarsi dopo un grave infortunio e, infine, per diventare sindaco di Verona. Una vita intensa, fatta di corse lunghe più che scatti brevi. E nel 2022, quello stesso candore che l’ha portato a essere uno dei calciatori italiani più amati, gli ha consentito di mettersi alla guida della città. In questa chiacchierata, per Pantheon People Podcast, Tommasi ci ha raccontato cosa significa crescere tra marmo e montagna, arrivare nell’Olimpo del calcio italiano e affrontare la politica come se fosse, ancora una volta, una partita vera.

Partiamo dal principio: chi era Damiano Tommasi da bambino?
Ero il terzo di cinque fratelli ed ero sempre alla rincorsa dei miei due fratelli più grandi. Amavo stare all’aria aperta, giocare con loro. seguire mio padre nel suo lavoro di marmista. Siamo cresciuti a Sant’Anna nella nostra parrocchia di Vaggimal.

Il calcio c’era già allora nella sua vita?
Più che il calcio, il pallone. Probabilmente la prima volta che ho dato un calcio a un pallone, ancora non camminavo (ride, NdR).

Quando ha capito che sarebbe diventata una professione?
La prima percezione l’ho avuta con la firma del precontratto con l’Hellas Verona, ma la vera consapevolezza è arrivata con il passaggio alla Roma. Lì ho capito che fare il calciatore sarebbe stato davvero il mio lavoro. Quando poi è arrivato in panchina Fabio Capello e ha messo un’asticella così alta nella mia testa che mi sono detto: “Se riesco a essere confermato con un allenatore come Capello, allora potrò dire ai miei figli che nella vita ho fatto il calciatore”.

Che ricordi ha della Roma?
L’inizio di quell’avventura è coincisa con l’inizio della mia vita matrimoniale. Ci siamo sposati il giorno dopo la mia ultima partita con l’Hellas e siamo andati a Roma, dove sono nati quattro dei nostri sei figli. È stato un periodo formativo, soprattutto dal punto di vista umano.

Quindi, se le dico 2001: cosa le viene in mente?
È una data che è diventata un punto nella mia storia professionale che mai avrei pensato di raggiungere, perché abbiamo vinto un campionato e in quel campionato sono sceso in campo in tutte le partite; quindi, mi sono sentito anche protagonista di quella vittoria. È stata una botta di autostima non indifferente. Di quel periodo porto con me anche il valore delle persone conosciute, amicizie vere e disinteressate.

2002, invece?
 Mi viene in mente l’Ecuador, visto che ho esordito nel mondiale con la vittoria contro l’Ecuador e abbiamo chiuso il mondiale con un arbitro proveniente dall’Ecuador che è diventato tanto famoso quanto il sottoscritto (Byron Moreno, NdR).  Però è stata un’esperienza straordinaria anche quella: arrivare a giocare con la maglia azzurra è davvero un traguardo che ripaga di tutti i sacrifici.

C’è un gol che ancora si sogna di notte?
Non sogno azioni di calcio, ma un gol che mi è particolarmente caro è quello del mio ritorno in campo dopo l’infortunio del 2004, contro la Fiorentina. Quando mi sono infortunato sembrava non potessi più tornare a giocare a calcio, se non addirittura a camminare. In realtà poi sono riuscito a recuperare e nella prima partita di rientro ho fatto gol contro la Fiorentina, sulla cui panchina c’era, tra l’altro, Cesare Prandelli che era l’allenatore della Roma proprio quando avevo subito l’infortunio. È stato come chiudere un cerchio. Quel gol non ha paragoni per me.

Al di là del calcio, però, so che ha avuto anche un’esperienza del tutto diversa: ha doppiato il protagonista del film “Shaolin Soccer”. Come è andata?
È stato particolare perché in quel periodo avevo tempo libero per via dell’infortunio e mi proposero di doppiare “Gamba d’acciaio”. È stato divertente e un po’ profetico, perché poi sono andato a chiudere la mia carriera proprio in Cina, come primo calciatore italiano a giocare nel calcio cinese professionistico.

Tra famiglia, amministrazione e tutto il resto, come riesce a staccare?
Restando a casa con i miei figli, allontanando il telefono. Oppure incontrando amici che mi fanno sentire che non sono solo, anche quando non si riesce davvero a staccare.

Come è arrivato alla candidatura a sindaco?
Dopo anni di impegno nel mondo dello sport, come consigliere nazionale del CONI e presidente dell’Associazione Italiana Calciatori, è arrivata una proposta da una coalizione ampia. Ritengo che alla politica vada dato spazio, anche per dare l’esempio ai giovani, che ancora oggi non vedono nella politica il luogo in cui concretizzare i propri ideali.

Quanto è stato difficile ottenere consenso in una città come Verona che, storicamente, è più orientata al centrodestra?
Verona è concreta, che tende a nascondere la propria ambizione. Ma  se sollecitata in maniera corretta, sa essere una città internazionale europea, che vuole essere protagonista del proprio racconto.

Com’è stato l’inizio da sindaco?
Straordinario ma complesso. Non avevamo definito gli incarichi prima del voto, quindi abbiamo lavorato per trovare un equilibrio. È una delle qualità della nostra coalizione: anteporre il progetto alla spartizione dei ruoli.

Come vi state preparando alle Olimpiadi 2026?
Credo che ci accorgeremo solo una volta che sarà terminato l’evento, della sua importanza. Ci stiamo impegnando per rendere la città più accessibile. Abbiamo già iniziato a lavorare e entro fine anno avremo una città cambiata.

Non so se possa già chiederglielo, ma pensa già a un secondo mandato?
Sono pronto a fare l’assessore allo sport della prossima giunta di centrosinistra. Per ora vediamo, abbiamo due anni per pensarci. D’altronde la durata dei due mandati è l’unica che consente di dare concretezza ai progetti.